Dalla Rivista Caritas Ticino aprile 2019
Dal 7 febbraio 2019, ricorrenza della fine della dittatura di Duvalier e dopo oltre due anni di carica dell’attuale governo, la popolazione haitiana sta chiedendo con veemenza le dimissioni del presidente Jovenel Moïse. È un giovane imprenditore del nord del paese, è stato lanciato e promosso alla sua candidatura dall’ex presidente Martelly e si è insediato dopo le elezioni con un discusso ballottaggio. Nei due anni in cui è stato al potere per molti ha dato ripetutamente dimostrazione della sua incapacità di governare e amministrare. «Non c’è una sola promessa soddisfatta, né una singola misura che abbia preso per il bene del popolo haitiano. Ovunque c’è paura e incertezza. Le dimostrazioni quotidiane di dissenso diventano scene di violenza e saccheggi. La maggior parte delle stazioni di servizio sono soggette ad atti di vandalismo, diverse aziende sono state saccheggiate; i veicoli, principalmente del servizio statale, sono stati bruciati, così come alcune istituzioni pubbliche e private; la polizia è letteralmente travolta dagli eventi», hanno sottolineato fonti internazionali da Port-au-Prince. La moneta nazionale (Gourde haitiano, HTG) ha subito una forte svalutazione: cambiato un anno fa a 66 col dollaro, oggi è a 83, rendendo la vita impossibile in un paese dove 7 milioni di persone sopravvivono con meno di due dollari al giorno. I servizi pubblici non funzionano, l’istruzione è in crisi, un’alta percentuale della popolazione è disoccupata e la violenza nelle strade aumenta. Il settore bancario è debole, il commercio funziona solo in modo informale, non ci sono servizi di trasporto di base, l’acqua scarseggia, l’energia (nelle città) è intermittente, le strade principali e le strade sono bloccate e la maggior parte delle persone richiede le dimissioni del suo Presidente. Pochi giorni prima che scoppiassero le proteste, un rapporto è stato pubblicato dalla Corte Nazionale dei Conti che ha rivelato significative irregolarità nel programma Petrocaribe tra il 2008 e il 2016 (un aiuto al Paese da parte dell’impresa petrolifera venezuelana di oltre 4 miliardi di dollari), che ha coinvolto 15 funzionari attuali e del Governo precedente, tra cui lo stesso presidente Moïse. Sono oltre 3.8 miliardi di dollari, ufficialmente riconosciuti dal primo ministro, che sono stati defraudati e che devono essere restituiti al popolo haitiano.
La Conferenza episcopale haitiana ha pubblicato una breve nota in cui si legge:« “Signore, salvaci, siamo perduti!” (Mt 8, 25) È con lo stesso grido allarmante di preghiera e disperazione che i discepoli fecero a Cristo, mentre dormiva e la barca minacciava di affondare, che oggi ci rivolgiamo a voi per dirvi che viviamo un tempo gravissimo. Dobbiamo svegliarci e prendere in considerazione tutta la portata del pericolo che ci minaccia, è tempo di unire le nostre forze e le nostre menti per salvare la nostra barca Haiti, che è il nostro orgoglio. Dobbiamo trovare una saggia soluzione che consideri l’interesse superiore della nazione e la difesa del bene comune. In questo senso, invochiamo la coscienza cittadina di tutte le parti per una decisione patriottica, anche a prezzo di grandi sacrifici». La mancanza di comunicazione a livello internazionale si ripete anche all’interno del paese: il caos si diffonde e l’anarchia nelle strade si trasforma rapidamente in violenza. Non è noto quali misure stia prendendo il governo, non ci sono notizie chiare sulle articolazioni politiche in corso e non esiste un chiaro posizionamento della comunità internazionale.
La Conferenza missionaria della Svizzera italiana, con semplicità e umiltà, accompagna questa gente nel suo cammino di ricerca della dignità. Siamo testimoni diretti che, nei piccoli villaggi contadini, l’abbandono è totale, non solo nel campo dell’educazione, ma a tutti i livelli. Colpisce quanto le notizie internazionali mostrano situazioni di crisi in diverse parti del mondo ma sulla situazione haitiana si trovano solo pochi trafiletti, pressoché il nulla di quanto sta accadendo. È naturale chiedersi perché il dolore di questo popolo è invisibile al mondo? Se ci fosse il petrolio la sofferenza di queste persone forse diventerebbe interessante, ma forse è bene che non ci sia, almeno lascia fuori confine i rappresentanti di quell’economia liberista che mercanteggia con i poveri di questa terra.
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